Massimo Mori ‘Poematica del Principio Tai Chi’

Recensione di Sergio Raimondo
Edizioni Clichy, Firenze 2020

 

Gennaio 2020.
Il denso volume Poematica del Principio Tai Chi, edito nel gennaio 2020 da Clichy, Firenze, è un raro esempio di competenza realmente interdisciplinare frutto della policroma esperienza di vita dell’autore Massimo Mori. Medico con decenni di esercizio della professione e autore di numerose pubblicazioni tecniche in materia, poeta intermediale pluripremiato e infaticabile animatore di vivaci circoli culturali fiorentini, già nel 1964 Mori incontrò a Hong Kong il taijiquan (nella traslitterazione hànyǔ pīnyīn ma tai chi chuan nella trasliterazione Wade-Giles utilizzata in questa pubblicazione; letteralmente, pugno del principio supremo) stile Yang. Divenuto esperto di questa disciplina tramite una lunga pratica di studio all’interno di un lignaggio originato dalla famiglia Yang, vi ha inoltre accostato l’apprendimento della medicina tradizionale cinese, delle tecniche di benessere energetico qigong e di manipolazione energetica tuina. Nel 1996 ha fondato nel centro della città medicea una sua propria scuola (‘Nuovo Orizzonte’ a.s.d. www.nuovorizzonte.it) dove si mantiene alta l’attenzione sia alla qualità della pratica che agli approfondimenti teorici, filosofici e artistici soprattutto, che sottendono il taijiquan. Nel più autentico spirito di questa disciplina, l’accogliente sede è così divenuta col tempo un vero e proprio circolo culturale che ospita gli interventi anche di studiosi ed esperti appartenenti a scuole di altri stili, ulteriore conferma dell’attitudine alla multidisciplinarietà che caratterizza l’intera vita dell’autore.
L’opera consta di 371 pagine che comprendono anche due importanti introduzioni di Amina Crisma ed Ernestina Pellegrini, oltre che alcuni utili apparati, che la arricchiscono rispetto a un’altra edizione (Caliel, Castello Maggiore, BO, ottobre 2018) precedente di appena due anni. Sin dal titolo, il saggio non si presenta certo con intenti divulgativi. Il lettore si trova infatti immerso dal primo all’ottavo e ultimo capitolo in un diluvio di scibile che necessita di una padronanza lessicale di notevole livello.  La lettura risulta però piacevole proprio perché, libera da vincoli accademici e da impegni didascalici, l’esposizione induce una scoperta continua di accostamenti possibili tra concetti, sensazioni, filosofie, suggestioni e persino visioni nel senso letterale del termine poiché, a corredo del testo su carta, è possibile visionare due filmati sul proprio “telefono furbo” semplicemente accostandone lo schermo a due codici QR riportati in fondo al libro. Che quindi prosegue oltre la sua chiusura apparente, concretizzando l’esperienza della fine che produce un nuovo inizio, proprio come nell’alternanza ritmica tra yin e yang propria del tai chi, principio supremo, che resta il soggetto chiave di tutto il testo.
L’obiettivo dichiarato dall’autore sin dal primo capitolo dove si forniscono le coordinate necessarie ad approfondire il tema è infatti l’articolazione di  un paradigma olistico riscontrabile in tradizioni diverse e sperimentabile nel presente, intanto che si abbandona un orientalismo di maniera. Un proposito non nuovo, specialmente dopo  che Edward Said – curiosamente mai citato  in questo volume – ha ben avvertito le coscienze critiche dei rischi di riferirsi superficialmente alla cultura orientale dimenticando come essa sia più rappresentata che capita nella percezione che ne ha avuto il sapere occidentale e che in buona parte ancora ne ha. Mori avanza però nel suo intento con sorprendente creatività oltre che con coerenza. Utilizzando citazioni classiche colte, mai banali, ma anche richiami più popolari, per esempio a traiettorie musicali tanto diverse quali quelle di Lou Reed, Demetrio Stratos o Bob Dylan che pure riesce a far convergere nel rigore del suo ragionamento, l’eclettico maestro, medico e poeta suggerisce inoltre con scrupolo metodologico chiarimenti sulla sostanza del linguaggio impiegato avvalendosi di riferimenti a letture di spessore universale che spaziano dalla teologia alla filosofia teoretica, dalla fisica alla letteratura e anche al cinema.
Un’efficace bussola operativa si trova al termine del terzo capitolo dove si formula una chiara alternativa definendo la necessità che l’auspicato paradigma olistico sia prodotto in via irrinunciabile dall’azione congiunta di filosofia, scienza e arte. Mori schiva così il vicolo cieco filosofico in cui potrebbe inoltrarsi una visione complessiva inerte di fronte alla necessità umana della scelta, discriminante obbligata fra le molte variabili che sola può orientare il cammino sulla via della conoscenza in termini virtuosi. Intelletto ed emozioni, istinto e raziocinio, corpo e mente, senso e non-senso, separati dal meccanicismo riduzionista newton-cartesiano, trovano qui immediata ricomposizione nell’efficienza universale del ritmo – per dirla con Marcel Granet – generato dall’alternanza complementare tra yin e yang.
Più avanti, nel capitolo sesto imperniato sulla lettura dell’I Qing (I Ching secondo il Wade-Giles) – preceduto da altri due capitoli dove si analizzano temi complessi quali la percezione non verbale, il tempo, la meditazione che meriterebbero da soli un’approfondita riflessione impossibile in questa sede – viene sottolineato con più decisione un tema già affrontato in precedenza,  l’importanza per l’uomo di seguire la via della natura. Lo stesso argomento sarà ripreso nel capitolo successivo dedicato al Daodejing (Tao Te Ching, noto anche come Laozi) ma si può dire che esso sottende l’intera esposizione. Molto opportunamente l’autore sottolinea in più passaggi come la natura capace di unificare corpo, mente e spirito non si palesa in quanto salvifica emanazione divina che accoglie chi crede in un’entità metafisica, neanche coloro i quali osservano strettamente dettami morali ritenuti assoluti proprio perché espressione della trascendenza.
Il parallelo tra questo approccio e i nuovi paradigmi della scienza si rende qui manifesto. Mori  approfondisce questa convergenza soprattutto in riferimento alle teorie del tempo, del caos, della predicibilità formulate dal premio Nobel 1977 per la chimica, Ilya Prigogine, il quale dimostrò con la sua teoria delle strutture dissipative come l’ordine della natura non sia immutabile né tanto meno ispirato da un qualche soffio divino, essendo invece il risultato di una fluttuazione continua. Ma è facile constatare come la filosofia daoista illustrata dall’autore condivida anche con la biologia molecolare, la fisica delle particelle, le scienze ambientali la stessa visione della vita che si può definire sistemica. Ciò significa che la realtà non è vista come un dato immutabile, qualcosa dato una volta per tutte di cui la ricerca deve solo sforzarsi di comprendere le leggi oggettive già scritte da qualche parte, isolando le vari componenti del mondo naturale per poterle meglio delineare. La realtà è invece osservata – e vissuta dallo stesso osservatore che quindi scruta anche se stesso – come una totalità non solo inseparabile ma in continuo mutamento. L’ecologia ha già dimostrato da tempo che l’equilibrio degli ecosistemi – degli organismi viventi  in generale – non è una condizione data una volta per tutte, neppure in assenza di elementi perturbativi di origine umana. Gli organismi viventi, le strutture naturali, sono infatti sistemi complessi, caratterizzati da molteplici interazioni tra fattori interni ed esterni, ma l’aspetto essenziale del loro sviluppo spontaneo risiede nella capacità di espellere il disordine per ritrovare il proprio equilibrio. Ciò avviene tramite lo sfruttamento del flusso energetico in ingresso –  della luce solare, per esempio – così da realizzare un nuovo ordine a un più alto grado di stabilità. Questa essenziale capacità di autorganizzazione accomuna la spontaneità riproduttiva degli ecosistemi e degli organismi viventi al perseguimento della Via, del Dao. Si può dire che tanto la natura quanto il bravo praticante conservano la direzione senza avere un fine, la direzione è quella della massimizzazione dell’energia libera disponibile mentre la traiettoria non è determinata. Ogni ambiente, così come ciascuna persona, possiede un suo proprio codice genetico da cui consegue una sua propria capacità di autorganizzazione e pertanto di efficienza nel massimizzare l’energia libera disponibile.
Dopo queste ampie disquisizioni, sempre suffragate da riferimenti a letture di altissimo livello, gli ultimi capitoli si concentrano sulle caratteristiche liberatorie e rigeneranti del taijiquan, esercizio che prevede impegno e perseveranza ma che ottiene i suoi benefici, ormai riconosciuti anche dalla medicina allopatica, proprio perché non ricorre alla coercizione. Il praticante assiduo di taijiquan ristabilisce l’alternanza ritmica tra gli opposti mediante la non-azione propria del daoismo più antico, il che però non significa che egli resti inattivo e passivo, anzi. É infatti consapevole che l’ordine dell’alternanza ritmica è il risultato di un dinamismo continuo, caratterizzato da fluttuazioni incessanti, multiple e interdipendenti, ordine tramite fluttuazione, per usare il linguaggio di Prigogine. Per ottenere questo risultato ogni organismo vivente  – un bosco, un lago o una persona che pratica un esercizio – deve mantenere la propria flessibilità per essere in condizione di cogliere quante più scelte possibili nell’interazione con il proprio ambiente. Si può anche dire che la flessibilità di un sistema, così come la sua conseguente stabilità, dipendono dalla quantità di variabili a disposizione, fluttuanti entro un limite di tolleranza. In definitiva, quanto più è dinamico lo stato dell’organismo, tanto maggiore è la flessibilità che influenza la sua capacità di equilibrio. Perdita di flessibilità significa perdita della capacità autorganizzante, dunque squilibrio, malattia, mancanza di controllo. In questo senso, il benessere dell’individuo scaturisce da un equilibrio dinamico che coinvolge le sfere fisiche, psichiche ed emozionali in continua interazione con il suo ambiente naturale e sociale. Insomma, la capacità di adattarsi a un ambiente che muta è un carattere essenziale degli organismi viventi così come dei sistemi sociali, se si perde questa capacità il conseguente irrigidimento comporta spiacevoli difficoltà.
Prima di congedarsi dai suoi, necessariamente attenti, lettori, Mori indica infine un ancoraggio alla realtà storica attuale della pratica del taijiquan. Intanto ricorda che un maestro efficace, un autentico mentore, può essere solo chi offre ai suoi allievi la possibilità di utilizzare al meglio le proprie qualità, di ottimizzare l’energia disponibile, non chi è abile a illudere i suoi discepoli che chiunque possa divenire un grande artista.
Ancora più importanti sono le considerazioni finali circa l’attitudine di un’arte marziale qual è il  taijiquan a realizzare condizioni di pace, assai ben sintetizzate nell’esortazione ad andare Oltre la naturalità dell’istinto posta a titolo di un paragrafo dell’ultimo capitolo. Se, infatti, l’autodisciplina che permette di conservare l’integrità fisica e morale tramite la pratica del taijiquan è al tempo stesso una via per accedere al grande ordine della natura universale,  l’apprendimento non si svolge nell’isolamento, né conduce a esaltare l’egocentrismo. Si osservi che il praticante coscienzioso pone testarda attenzione al rispetto dei ritmi spontanei dell’ambiente naturale perché sostenuto da una concezione della vita che non ritiene inconciliabili le esigenze di uomo e natura mentre ne apprezza invece la collaborazione. Allo stesso modo, il praticante coerente si sforzerà di mantenere vivo l’atteggiamento di rispetto e collaborazione anche nelle dinamiche della vita sociale. Reso più sicuro dei propri mezzi perché conscio che la sola fonte di ansie e paure si trova dentro alla sua stessa persona, il praticante perseverante potrà accantonare l’orgoglio e liberarsi dalle catene dell’egoismo. Il processo di autoeducazione si indirizza pertanto verso una coerente assunzione di responsabilità per le stesse modalità con cui si realizza. Prendendo coscienza dell’interdipendenza degli opposti e del loro continuo alternarsi, si impara a riconoscere le proprie responsabilità rispetto al mutare delle circostanze e a essere solidali con la ricerca dell’equilibrio. Evocare e perseverare la coerenza non vuol dire perciò riferirsi a imperativi categorici, definiti da un autore metafisico. Significa invece sperimentare l’armonia dell’universo espressa dall’alternanza degli opposti yin-yang che sono tuttavia parimenti complementari, come la notte non esiste senza il giorno e viceversa.  Questa teoria non concepisce astrazioni antitetiche per risolvere in chiave metafisica la questione dell’opposizione, ben presente ai filosofi del passato e del presente in ogni angolo di mondo, come dimostra Mori con continui richiami alla loro opera. Bene-male, vero-falso, bello-brutto, uno-molti, sempre-mai, assoluto-relativo sono coppie equilibrate anziché espressioni antagoniste, gli opposti si completano invece di escludersi a vicenda. Si badi bene che vivere la risonanza degli opposti complementari è un processo che avviene nel mondo sensibile, dove passioni e conflitti non sono respinti o negati, ma viceversa vissuti con forza sufficiente ad assumere la responsabilità delle proprie scelte.
Possiamo allora affermare che se scegliere significa escludere una possibilità a favore di un’altra, la pratica coerente può permettere di individuare le soluzioni più adatte allo sviluppo di sé stessi ma anche della civiltà, all’incremento di valori condivisibili e condivisi a ogni angolo del pianeta, a cominciare proprio dal rispetto delle differenze. Con questa prospettiva, può essere in effetti più facile concepire forme organizzative orientate da un’adesione consapevole alla concordia, che rispecchino la compattezza dei giusti perché in esse è agevole suscitare la coesione sociale. Qualsiasi organizzazione costituisce al tempo stesso un’unità e una molteplicità. In altri termini, le varie componenti esprimono le proprie potenzialità in un contesto valoriale preciso, vincolante da un lato ma che dall’altro permette l’emersione di qualità che possono esistere solo in presenza di tale contesto. Si pensi ai rituali sociali – igiene personale, saluti – appresi sin dalla nascita in ambito familiare, oppure a un ologramma o agli stessi organismi biologici: ogni singola parte o cellula contiene già tutta l’informazione dell’insieme. Agire con coerenza la risonanza degli opposti rende insomma possibile formulare grammatiche comprensibili a speranze diverse, attratte a un comune obiettivo. Si deve essere grati a Mori e agli altri maestri che come lui hanno dedicato la propria esistenza alla costruzione di un paradigma olistico basato sull’azione congiunta di filosofia, scienza e arte. Una traccia oggi più che mai attuale per sperimentare uno spazio etico percorso da una laicità attenta alla comprensione e al rispetto dell’altro, ad ascoltare le voci altrui come premessa per immaginare la pace.

 

 

Sergio Raimondo: docente in Discipline Orientali dell’Autopercezione all’Università di Cassino e del Lazio del sud. È Maestro di Taijiquan e Qi Gong.
Già dirigente per il Ministero della Cultura della Biblioteca di Storia Moderna e Contemporanea di Roma.
Tra le sue pubblicazioni: ‘Vibrazioni nella forza ’ (La Meridiana, 2007), ‘La forza di seta ’ con Giovanna Sabatelli (Bulzoni, 2013), ‘Gioco, Dramma, Rito nelle arti marziali e negli sport da combattimento ’ (Exnorma, 2013).