APPUNTI RANDOM SUL LIBRO-SUMMA DI MASSIMO MORI “TAI CHI (TÀIJÍ) – POEMATICA DEL PRINCIPIO”

di Marco Palladini

Webzine malacoda.it

Nel suo libro magno Tai Chi (Tàijí) – Poematica del Principio  Massimo Mori accenna al filosofo e pensatore mistico cinese Zhuang Zi (369-286 a.C.), reputato tra i fondatori del Taoismo o Daoismo che dir piaccia, che ebbe una volta a sognare di essere una farfalla, “consapevole soltanto della mia felicità di farfalla, ignaro di essere me”. Quando Zhuang Zi si destò e tornò ad essere se stesso, fu colto da un dubbio: “… non so se allora ero un uomo che sognava di essere una farfalla o se adesso sono una farfalla che sogna di essere un uomo”.
Ecco, leggendo questa sua opera, in un certo senso testamentaria, mi è piaciuto pensare a Mori come una farfalla che sogna di essere un uomo e a me stesso come un lettore ammirato, incluso nel sogno della farfalla-Mori.
Fuor di filosofica celia, va pur affermato che questo volume è un trattato concernente il Tai Chi da studiare e da meditare più che da leggere. A me, profano di tale antica pratica cinese di ‘meditazione in movimento’, ha fatto pensare ad un libro ‘liquido’, per dirla alla Bauman, o ad un libro reticolare, come rete di reti di vari saperi, ovvero ad un libro sapienziale dove tutto armoniosamente e quasi miracolosamente fluisce: il sapere del Tai Chi si connette con il sapere della poesia che si interfaccia con il sapere della filosofia che si intreccia con il sapere della scienza. E questa straordinaria e felice ibridazione di tanti saperi è incarnata dall’uomo Mori, che è un maestro di Tai Chi, un medico radiologo ed un artista intermediale che sperimenta col suono e con la voce, con l’immagine e con l’installazione, con i libri-oggetto e col video, con la poesia visiva e con il gesto; nonché un organizzatore culturale (per quasi un quarto di secolo direttore artistico presso lo storico caffè Le Giubbe Rosse di Firenze) di una infinità di incontri, dibattiti e presentazioni sui più diversi temi ed argomenti. Massimo Mori, dunque, come ‘uomo totale’ immerso con estrema competenza, con invidiabile know-how nei differenti saperi e, quindi, poi capace di ricondurli dentro un’unica sfera di sapienza che egli declina come ‘poematica del principio’, ovvero conoscenza pratica, poiein meditativo del processo lungo la direttrice del Tao/Dao, la Via per la autorealizzazione del sé (e di sé).

IL MAESTRO MASSIMO MORI
In questo mirabile volume eracliteo, tutto vi scorre e ricircola postulando l’unione degli (apparenti) opposti: luce/ombra, suono/silenzio, luogo/nonluogo, mente/corpo, voce/gesto, pensiero/respiro, interno/esterno, conscio/inconscio. Un processo di sintesi che si ritrova ovviamente nel simbolo taoista par exellence: l’icona Yin e Yang, che secondo alcuni sarebbe nata dalla visione di due pesci acciambellati in fondo ad una cesta, i quali, a causa del taglio della luce, risultano uno scuro (Yin, principio del femminile, della terra, della notte, del negativo, del freddo etc.) e l’altro chiaro (Yang, principio del maschile, del cielo, del giorno, del positivo, del caldo etc.). Yin e Yang sono evidentemente principi complementari come dimostra pure la piccola sfera nera sullo Yang bianco e la piccola sfera bianca sullo Yin nero, che corrisponderebbero agli occhi dei due mitopoietici pesci originari. Animali marini, dunque forse anche emanazioni delle forze inconsce dell’uomo che si dialettizza con il cosmo o caosmo che dir si voglia.
In tale dialettica di luce e buio mi ha colpito, tra le molte articolazioni del Tai Chi, quella chiamata Tui Shou, ovvero il combattimento con l’ombra, laddove l’ombra è la proiezione del lato dark che sempre ci accompagna, e dunque il Tui Shou è il combattimento con se stessi, con la parte negativa, quella che resiste, che rema contro la nostra possibile trasformazione, contro il cambiamento capace di liberare la nostra energia creatrice e luminosa, cioè in grado di illuminare e di illuminarci nella processualità della Via.
In questo volume-summa non può non ritornare più volte il concetto cardine del Tao denominato Wu Wei e abitualmente tradotto come ‘non agire’. Ma tale ‘non agire’ spiega eloquentemente Mori non si riferisce ad una mera aprassia, ad una rinuncia a fare alcunché, ma è semmai l’indicazione a non opporsi, a non interferire con il processo di cambiamento, con la spinta di mutazione intrinseca al permanente fluire del Tai Chi. Che è il fare esperienza diretta e personale del ‘principio superiore’, cioè il Tao, che rimane inconoscibile e inattingibile, ma funge da principio euristico che orienta il percorso del praticante. Così, a Mori piace usare, anche ironicamente, la definizione neologistica di ‘taologia’, dunque ponendosi lui in primis come un ‘taologo’ che orienta i propri allievi verso un nuovo orizzonte, la cui vetta ultima sarebbe nel buddhismo il Samādhi, ossia la totalità unificante tra il soggetto meditante e l’oggetto della meditazione, vale a dire la dimensione olistica in cui tutti gli apparenti dualismi vengono gloriosamente dissolti.
In tal senso il libro ‘taologico’ di Mori richiama necessariamente la differenza costituiva che c’è tra la visione orientale e il pensiero occidentale. Laddove quest’ultimo procede sempre attraverso un approccio cognitivo dualistico: se c’è A non ci può essere B, se c’è B non ci può essere A; mentre la cultura orientale contempla il monismo, in cui A e non-A si integrano e si implementano. Così, mentre in Occidente, per fare soltanto un esempio, natura e tecnica sono concepiti secondo una irriducibile opposizione, in Oriente essi fanno parte della medesima ecosfera di irradiazione della substantia del mondo, così come materia e spirito non sono antitetici, bensì modulazioni diverse dello stesso Principio fondante la realtà complessa, stratigrafica, ma appunto olistica in cui abitiamo.
Per Mori il Tai Chi è una pratica processuale che può pure preludere ad un credo, ad una fede religiosa, qualunque essa sia, ma anche no, come usa dire. Il Tai Chi può quindi essere praticato anche da colui che non crede in alcun dio, e lo concepisce soltanto come una extra-ordinaria “condizione laica da cui partire”. Così, egli soggiunge, “il senso è il principio Tai Chi, il come è la taologia del processo, la modalità del procedere”. L’itinerario del Tao/Dao è riguardato come una interazione dinamica tra gli opposti, basti nominarne qualcuno: causalità/casualità, ordine/caos, indeterminazione/previsione, libero arbitrio/destino, etc.
Tale interazione dinamica connota quello che nella filosofia indiana viene chiamato Prana, ossia pneuma, respiro, spirito o, tout-court, vita. Mori si appella ad un “cervello olonomico” per intendere e saper articolare le tre componenti basiche di ogni essere vivente: l’Energia, la Struttura e l’Informazione. L’essenza del nostro esserci (l’heideggeriano Dasein) abbisogna di un soffio o élan vital (vedi Henri Bergson), di una architettura interiore intelligente e della capacità critica di recepire, filtrare ed elaborare tutta la massa di dati e di informazioni che il nostro corpo-mente assorbe fin da prima della nascita, quando il feto galleggia nel liquido amniotico. Già lì, si potrebbe asserire, il Tao è in azione ad orientare l’embrione nel suo sviluppo.
Nell’economia del libro sono centrali due capitoli: uno riservato all’I Ching, il famoso Libro dei Mutamenti che risale a 2.500-3.000 anni fa, considerato al contempo un testo di divinazione, un trattato cosmologico ed un libro di saggezza. Per Mori l’I Ching è una sorta di ipertesto, una rete di plurisignificazioni: dalla combinazione dei suoi sessantaquattro esagrammi si può ricavare una vertiginosa, anche enigmatica ermeneutica, capace di lumeggiare e di dare conto dei plurimi nodi dell’intero arco esistenziale e psico-comportamentale dell’essere umano. Se pensiamo che la prima vera traduzione integrale in Europa di questo testo, auspice l’introduzione di Carl Gustav Jung, risale al 1924, cioè meno di cento anni fa, è facile capire che è risibile reputare il nostro stadio di civiltà occidentale più avanzato o progredito rispetto al passato. L’I Ching sta lì ad attestare che nella Cina di quasi trenta secoli or sono, c’era chi aveva attinto un livello di consapevolezza simbolico-filosofica ben superiore rispetto alle nostre visioni contemporanee.
L’altro capitolo è dedicato al Tao Te Ching, il Libro della Via e della Virtù, risalente al IV-III secolo a.C. ; Mori però corregge la traduzione: il Libro della Via e della Potenzialità, perché Virtù potrebbe essere inteso come un concetto statico, che è già lì bell’e pronto, mentre Potenzialità sottolinea il lato dinamico, qualcosa che c’è in potenza, ma deve essere attivamente percorso per poter essere compiuto. Il Tao/Dao è la Via o Sentiero, ma Mori cita al riguardo il titolo di una famosa composizione musicale di Luigi Nono “No hay caminos, hay que caminar”: non ci sono cammini, c’è da camminare. Ecco forse non c’è il Tao come cammino, ma c’è il Tao come necessario impulso a camminare, vale a dire a ricercare, dunque il Tao è al fondo una ricerca dove si coniuga trascendenza ed immanenza.
In questa grande ricerca (senza preventiva garanzia di riuscita) Mori indica quattro fondamentali concetti: il Vuoto (Wu) come campo di potenzialità attiva; il già citato Wu Wei (non azione / non opposizione); la Semplicità (Pu), ovvero l’essere spontanei, il comprendere semplicemente (cioè con mente semplice) le questioni complesse; e il Ritorno (Fu), ossia l’andare e tornare, il camminare e, poi, il ricominciare il cammino, perché la ricerca non approda mai ad un risultato definitivo, ogni volta bisogna ripartire, è un po’ come la fatica di Sisifo, ma non è inutile, perché essa, sottolinea Mori, è nello spirito di conoscenza “dell’uomo esperto che sa di non sapere”. Il Tai Chi come pratica consapevole vòlta alla comprensione profonda del principio superiore, mi ha fatto pensare all’antropoiesis di cui parlava Gianni Toti, ed appunto un antropoieta esemplare mi appare oggi Massimo Mori a questo punto del suo traslucido cammino.
Il capitolo terminale del libro è dedicato alle “tipologie del mentore”. È assai rilevante che Mori parli di mentore e non di maestro. Il maestro nella percezione comune chi è? è colui che si mette in cattedra, che da lì dispensa le sue lezioni o lezioncine, che fa calare dall’alto la sua autorità ‘magistrale’. Mentore è, invece, nell’Odissea il nome del precettore di Telemaco, nella poetica visione omerica egli è un consigliere, una sorta di amico dotto e edotto a cui dare la propria piena fiducia. Ecco questo fa comprendere che Mori come mentore del Tai Chi si pone come sostegno, come guida per i suoi allievi da condurre all’autoconoscenza, all’introspezione, a quella che definisce la “ristrutturazione psicobioenergetica del carattere”, passaggio essenziale per arrivare ad una consapevolezza piena di sé, alla compiuta ‘tensegrità’ del corpo-mente. L’integrità in tensione, la ‘intensione’ che supera la intenzione consente di “vincere la pace”, che poi sarebbe la visione olistica, equilibrata, appunto rappacificata “della persona e del mondo”.
Mori è un mentore, ma ancora di più oramai è un saggio che non insegna direttamente, ma con “il suo solo esempio”. E mi pare illuminante la citazione che trae dal libro di Robert M. Pirsig Lo Zen e l’arte della manutenzione della motocicletta, un testo-cult della controcultura americana degli anni Settanta: “Quando smetti di pensare alla meta, ogni passo non è soltanto un mezzo, ma un evento fine a se stesso (…) Vivere soltanto in funzione di una meta è sciocco, ma sui fianchi della montagna, e non sulla cima, si sviluppa la vita, evidentemente senza la vetta non si possono avere i fianchi. E così saliamo”. Il senso è chiaro: chi pratica il Tai Chi verosimilmente non arriverà mai sulla cima della montagna, cioè il Tao, ma senza la vetta-Tao non potrebbe continuare il cammino, che è una ascesa interminabile, nel corso della quale è necessario continuare con disciplina indefettibile la manutenzione e la trasformazione del pensiero/azione. Come non ha mai cessato di fare il camminante Mori in oltre mezzo secolo di pratica e come testimonia il suo prezioso libro che è l’opera apicale di una vita multipla e permutante.
In explicit, mi piace dedicare a Massimo un mio testo in versi, scritto un paio di anni fa, ma in qualche modo consonante con l’esprit sofopoetico che circola nel suo libro. Si intitola Fuorviante:

“La viandanza come danza del camminare,
muovere le gambe, procedere, migrare
per antiche e nuove strade.
Il viandante si fa Dante, sommo poeta
del viaggiare pedibus calcantibus
in pianura o in salita, col sole o la pioggia,
sulla terra polverosa o nel fango,
sulla sabbia o il ghiaioso pietrisco,
sulla neve o l’erba bruciata,
incontrando persone e conoscendo se stessi
come pellegrini al crocevia col destino.
I viandanti nel paesaggio esteriore cercano
i luoghi interiori di una vita anteriore
per un passaggio ulteriore, per trovare l’altrove.
Viandare per approdare alla Via ossia
allo spirito fuorviante e non da trivio
che ci svia per condurci fuori di noi
là dove l’uno si coniuga col tutto.
Partire, dicono, è un po’ morire,
ma è molto di più rinascere a inedite visioni,
ininterrotti sentieri per mirabili narrazioni,
per futuribili e culminanti interrogazioni”.

 

Marco Palladini
performer, poeta,critico teatrale
© 2018 malacoda.it

 

 

Marco Palladini: scrittore, poeta, drammaturgo, regista, performer e critico nell’ambito del teatro d’autore di ricerca. Ha scritto e allestito una quarantina di opere tra testi, spettacoli e performance teatrali e poetico-musicali, affermandosi in tal modo come autore di vocazione eterodossa e sperimentale di ragguardevole interesse.
Già direttore della rivista telematica ‘Le Reti di Dedalus ’ ed ora di ‘L’Age d’Or ’.
Tra le pubblicazioni: ‘La vita non è elegante ’ (Fermenti, 2002), ‘I teatranti del caos. La scena sperimentale e postmoderna in Italia ’ (Fermenti, 2009), ‘Prove aperte. Materiali per uno zibaldone sui teatri ’ (Fermenti, 2017), ‘I virus sognano gli uomini ’ (Ensamble, 2021).
Sulla sua opera poetica è uscita la monografia di Alessandra Appicciafuoco ‘I sentieri della linguavirus ’ (Novecento, 2019).